Lui era il milanese (con Lorenzo S.)
Questa è Filo, la newsletter che districa le cose che ingarbugliano i pensieri. Esce una volta al mese, ma quella volta si diverte 🙂
Oggi parliamo di conflitto
In principio era l'unità: almeno su questo, scienza e religione sono d'accordo. Secondo la teoria del Big Bang, l'Universo nasce da un granello ultra compatto di calore e di energia; secondo la Genesi, Caino e Abele erano una famiglia. Poi succede uno scoppio, o un litigio, e iniziano le divisioni. L’Universo si distende in miliardi di miliardi di pezzi, mentre Caino uccide Abele e si dà al vagabondaggio.
L'abbiamo presa (molto) larga per fare passare questo concetto: i conflitti nascono dalla coesione, e a volte ci tornano. Molte opposizioni che oggi diamo per scontate (credenti e non credenti, italiani e francesi, inglesi e scozzesi, scozzesi e altri scozzesi...) non esistono "naturalmente": sono invece il risultato delle diverse interazioni tra i gruppi sociali.
Questo perché il conflitto è di parte: ed è così che quando non siamo imparziali la nostra bilancia emotiva pende da un lato, quando siamo in guerra la nostra fazione combatte contro quella nemica, quando siamo allo stadio intoniamo i cori come se fossimo Spartani, eccetera.
Il conflitto è sempre una questione di gruppo: noi contro di loro.
Come mai?
Per capirlo, andiamo al cinema
Alla fine degli anni ‘70, gli psicologi Henri Tajfel e John Turner formularono la teoria dell’identità sociale1, che individua quattro vantaggi che possiamo ricavare dalla nostra “affiliazione” a un gruppo.
Proviamo a spiegarli con delle metafore cinematografiche (spoiler alert 📢).
Appartenenza: Maschi contro femmine, 2010.
Walter è un allenatore di pallavolo che tradisce la moglie (Monica) con una sua giocatrice (Eva). Quando la relazione finisce, Eva non si presenta a una partita fondamentale. Dov'è finita? Ha deciso di rintracciare Monica, per spiegarle i motivi del suo innamoramento. A unirle è un senso di solidarietà femminile, che dà loro la confortante sensazione di non essere sole.
Scopo: Mare fuori, 2020.
Due clan della Camorra fanno il possibile per distruggersi a vicenda: è il proposito che guida le azioni di ogni affiliato. Fare parte di un gruppo significa avere un obiettivo comune, qualcosa verso cui concentrarsi e tendere.
Autostima: Come ti divento bella, 2018.
Renee crede che la società la rifiuti per via del suo aspetto. Dopo un incidente comincia a vedersi più bella, riuscendo ad accedere al successo che pensava riservato a un’altra tipologia di donne. Sembra facile, e lo è: far parte di un gruppo migliora la percezione che abbiamo di noi e ci regala il consenso di cui abbiamo bisogno.
Identità: Shameless, 2011.
La serie ruota attorno a una famiglia disfunzionale del "South Side", una frazione di Chicago ad alto tasso di criminalità e di problemi: quasi una città a parte rispetto a quella dei quartieri bene. Fare parte dell’una o dell’altra sponda determina i valori e gli obiettivi dei personaggi: attraverso il nostro gruppo riusciamo a comprendere e a valutare chi siamo. Le sue qualità e i suoi difetti sono anche i nostri.
Questi 4 mattoni, cementati dal pregiudizio, costruiscono un muro: quello che separa l’in-group dall’out-group.
Quello che separa cosa?
Un in-group è formato dai membri di uno stesso gruppo: la famiglia, i colleghi di lavoro, il circolo delle bocce, la curva di una squadra di calcio. Dell’out-group fa parte chi non condivide i valori, gli obiettivi, la quotidianità del gruppo in questione.
L’in-group bias2 ci porta a valorizzare il nostro gruppo e a discriminare gli altri. Riesce a radicarsi persino all’interno di gruppi improvvisati, tenuti insieme da caratteristiche comuni superficiali.
È un pregiudizio cognitivo istintivo, del tutto naturale. E anche una comoda scorciatoia che il nostro cervello decide di imboccare quando deve risolvere un problema, o valutare una situazione. L’alternativa sarebbe l’approccio logico-scientifico, una strada che fa perdere molto tempo ed energie: il Grande Raccordo Anulare del pensiero.
Questo bias è presente nei gruppi in competizione tra loro, ma anche in quelli che non avrebbero nulla da guadagnare dalla supremazia, come dimostrano due esperimenti di parecchi anni fa.
Esperimento Klee-Kandinskij (di H.Tajfel), 1971.3
In base alla loro preferenza per un dipinto di Klee o Kandinskij, dei liceali furono divisi in due gruppi. Ogni studente doveva decidere quanto denaro distribuire ai compagni, conoscendo solo il loro gruppo di appartenenza. Non c’erano motivi pratici per farlo, eppure ogni persona scelse di avvantaggiare la propria “squadra”.
Esperimento delle aquile e dei serpenti (Robbers Cave), 1954.4
20 ragazzini di un campo estivo vennero divisi in due gruppi. “Le aquile” e “I serpenti a sonagli” si sarebbero dovuti scontrare in una serie di gare sportive. Bastò questo per accendere la rivalità, creare pregiudizi nei confronti della squadra avversaria, chiedere di mangiare in tavoli separati, organizzare missioni punitive e scherzi di ogni genere.
Migliorare lo status e l’immagine del proprio gruppo equivale a migliorare sé stessi e sé stesse. Ma per essere migliori serve che qualcuno sia peggiore, ed è a questo che servono i pregiudizi. Che però hanno un punto debole: sono reversibili.
Durante l'esperimento Aquile-Serpenti, gli organizzatori finsero un guasto alle tubature dell'acqua, e incolparono un gruppo di vandali. Questo diede a entrambe le fazioni un nemico esterno da sconfiggere. La creazione di un obiettivo comune costrinse Aquile e Serpenti a parlarsi, insegnandoci che le persone tendono a modificare comportamento e percezioni in funzione dei gruppi di appartenenza.
Parleresti con il tuo nemico?
Secondo lo psicologo statunitense Gordon Allport, l'incontro5 è l'unica arma che abbiamo a disposizione per provare a sgretolare la nostra tendenza alla generalizzazione. Se poi all'incontro aggiungiamo:
il sostegno delle istituzioni;
un linguaggio e un codice condiviso;
la volontarietà del contatto;
la condivisione di esperienze di vita;
otteniamo gli ingredienti della giustizia riparativa, un approccio che cerca di superare il concetto di "punizione" per concentrarsi sulla riparazione del danno causato da un crimine. Da tempo usata nel sistema minorile, è stata introdotta ufficialmente in quello penale dalla riforma Cartabia del 2022.
Una grossa parte della giustizia riparativa si basa sulla mediazione, cioè sul fare incontrare due persone che fanno parte di gruppi in conflitto: chi ha commesso un reato e chi ne è vittima. Ne abbiamo parlato con Lorenzo S., ieri rapinatore di banche e oggi presidente de La Ginestra scs - Centro di Giustizia riparativa e mediazione Padova. La sua storia è diventata molto famosa nel 2022, grazie al podcast Io ero il milanese di Mauro Pescio, che poi si è trasformato in un libro.
Un riassunto, se serve
All’interno di un gruppo riusciamo a crearci un’identità, a provare un forte senso di appartenenza, a procurarci uno scopo e ad aumentare la nostra autostima. Così, mentre ci uniamo a un gruppo, ci allontaniamo dagli altri: cominciamo a ipotizzare la loro essenza e i loro comportamenti formulando stereotipi e pregiudizi.
Perché lo facciamo? Per colpa dell’in-group bias: un pregiudizio cognitivo istintivo e ineliminabile, che ci spinge a svalutare e a discriminare le persone che non fanno parte del nostro gruppo.
Sconfiggere questo bias è complicato, ma possiamo provare a spostarlo: forse i francesi sono i nostri “rivali”, ma se domani i brasiliani conquistassero l’Europa, probabilmente ci uniremmo a loro individuando un nuovo nemico. Un obiettivo comune è in grado di sparigliare le carte in tempo breve.
La giustizia riparativa è più ambiziosa. Non cerca di spostare il bias, ma tenta di superarlo facendo incontrare gruppi diversi entrati in conflitto: la vittima di un reato, chi l’ha commesso e la comunità all’interno del quale è stato compiuto.
Il filo continua 🧵
Per approfondire, dai un'occhiata a questi contenuti che non abbiamo fatto noi.
Io ero il milanese
È il podcast di Mauro Pescio che racconta la storia di Lorenzo S. prima, durante e dopo la galera. In ogni puntata Lorenzo ripercorre le fasi fondamentali della sua vita: la prima volta in carcere per andare a trovare il padre, il primo ingresso nel penitenziario minorile; le rapine, la latitanza e la rinascita. Il podcast completo si trova su RaiPlay Sound.
Snowpiercer
È una serie thriller fantascientifica: in un pianeta ghiacciato e invivibile, il conflitto di classe si è spostato su un treno. Mentre nelle prime classi la vita scorre tranquilla, nelle carrozze di coda le persone faticano a sopravvivere: i fragili equilibri mantenuti dalla disuguaglianza sociale si sciolgono molto più velocemente del paesaggio che scorre fuori dai finestrini.
V13
È il libro-cronaca di Emmanuel Carrère che segue le fasi del processo contro gli attentatori del teatro Bataclan, attaccato dall’ISIS il 13 novembre 2015. Suddiviso in tre parti - corrispondenti a tre gruppi differenti: le vittime, gli imputati e la corte - raccoglie i resoconti pubblicati sulla rivista francese l’Observatour.
Lebanon
È un film di Samuel Maoz e racconta la prima guerra del Libano (1982) dal punto di vista di quattro soldati israeliani chiusi in un carro armato. Tutta la vicenda si svolge lì dentro: è una metafora della parzialità di visione delle persone durante un conflitto, dell’incapacità dei membri del gruppo di liberarsi delle gerarchie e di pensare e agire fuori dal tracciato del gruppo stesso.
Gli sdraiati
È un romanzo di Michele Serra che parla di conflitto generazionale: un padre separato tenta di convincere il figlio adolescente a fare un’escursione insieme a lui. Partendo da questo espediente, Serra annota in maniera ironica ma dettagliata tutte le piccole differenze che separano il “gruppo degli adulti” da quello dei nativi digitali.
Le altre puntate, su altre cose
Dietro Filo ci siamo noi: ci piacerebbe se ci fossi anche tu. Facci sapere cosa funziona e quello che dovremmo migliorare.
Bibliografia
Tajfel, H., Turner, J. C., Austin, W. G., & Worchel, S. (1979). An integrative theory of intergroup conflict. Organizational identity: A reader, 56-65.
Everett JA, Faber NS, Crockett M. Preferences and beliefs in ingroup favoritism. Front Behav Neurosci. 2015 Feb 13;9:15. doi: 10.3389/fnbeh.2015.00015. PMID: 25762906; PMCID: PMC4327620.
Tajfel, Henri. “Experiments in Intergroup Discrimination.” Scientific American, vol. 223, no. 5, 1970, pp. 96–103. JSTOR, http://www.jstor.org/stable/24927662.
McNeil, EB (1962). Discussioni e recensioni: Condurre una guerra sperimentale: una recensione: Sherif et al., Intergroup Conflitti e Cooperazione, The Robbers Cave Experiment. Giornale di risoluzione dei conflitti , 6 (1), 77-81. https://doi.org/10.1177/002200276200600108
Gaertner, S. L., Rust, M. C., Dovidio, J. F., Bachman, B. A., & Anastasio, P. A. (1994). The Contact Hypothesis: The Role of a Common Ingroup Identity on Reducing Intergroup Bias. Small Group Research, 25(2), 224-249. https://doi.org/10.1177/1046496494252005