Lavorare perché (con Maura Gancitano)
Questa è Filo, la newsletter che districa le cose che ingarbugliano i pensieri. Esce una volta al mese, ma quella volta si diverte 🙂
Oggi parliamo di lavoro
Che è quello che succede tutti i giorni, in tante occasioni sociali: rimpatriate, aperitivi, matrimoni, uscite a quattro. A un certo punto ci si ritrova a parlare di lavoro.
Come mai?
Una possibile risposta è che la nostra sopravvivenza dipende dal lavoro. Sono poche le persone che possono scegliere se lavorare: tutte le altre devono “guadagnarsi da vivere”, come si dice.
È per questo che il lavoro tende a essere stressante, oltre che centrale. Perderlo può rappresentare una minaccia esistenziale, da evitare a ogni costo.
Ma la prospettiva di restare senza lavoro può essere inaccettabile anche per chi potrebbe permetterselo, almeno a breve termine, e che invece fa di tutto per tenersi il posto, anche quando lo detesta.
Forse perché dove non arriva la necessità, arriva la pressione esterna: l’idea che il lavoro sia il sinonimo della propria identità.
Tre frasi fratte
«Perdere il lavoro è da falliti»
«Più guadagni e più sei una persona di valore»
«È naturale che i ruoli di responsabilità vadano agli uomini, che hanno più leadership e ambizione delle donne»
Queste frasi fatte sono anche frasi stupide. Le potremmo definire “convinzioni”: concetti che ci ronzano intorno durante l’infanzia, e che possiamo assorbire.
Se lo facciamo, diventano nostre: magari non c’entrano nulla con quello che siamo, ma tendiamo a crederci. Così finiscono per determinare il modo in cui viviamo i momenti in cui lavoriamo (e quelli in cui non lavoriamo).
Le convinzioni sono difficili da mettere in discussione. Per riuscirci abbiamo bisogno dell’aiuto delle nuove generazioni, che sono cresciute in un contesto diverso, e vedono i problemi che quelle vecchie non vedono.
Con il lavoro è successo molte volte, e forse sta succedendo ancora.
Lo chiamano “quiet quitting”
Cos’è
La tendenza a lavorare secondo le ore e le responsabilità previste dal contratto, senza andare oltre, per dare più spazio ed energie alla vita privata.
Cosa non è
Non significa licenziarsi, o lavorare controvoglia. Il punto è limitarsi ai propri compiti e orari, anche quando il contesto spinge per un impegno maggiore.
Da dove arriva?
Il termine è diventato popolare negli Stati Uniti a inizio 2022, grazie a TikTok e alla Generazione Z – cioè alle persone nate tra il 1997 e il 2012.
50%
La percentuale della forza lavoro statunitense che è possibile classificare come “quiet quitter”, secondo un sondaggio dell’istituto di ricerca Gallup.
Sondaggio: Gallup
74%
La percentuale di manager che sostiene che la generazione Z sia quella con cui lavorare è “più impegnativo”, secondo un sondaggio svolto su circa 1300 persone.
Sondaggio: Resume Builder
Solo una moda?
Il quiet quitting è stato definito un “fenomeno di massa”, ma non è detto che lo sia: la sua diffusione è ancora dibattuta. Di certo si inserisce in un discorso che è arrivato anche in Italia, e che (semplificando) vede i “giovani” pretendere maggiori tutele dal punto di vista dello stipendio, della vita privata e del benessere mentale. Richieste contrastate dai “boomer” e dai “millennial”, in nome dei sacrifici e della “gavetta”.
Ne abbiamo parlato con Maura Gancitano, filosofa, saggista, opinionista e divulgatrice, che sul lavoro ha ragionato spesso, fuori e dentro i libri, da sola o insieme ad Andrea Colamedici, con cui ha fondato il progetto Tlon (@tlon.it).
“Il lavoro è lavoro”
Se la nostra vita lavorativa è fatta di ansia, stress e apatia, tenderemo a incolpare l’azienda, o il settore, o una persona in particolare – ogni ufficio ha i suoi problemi. E magari cambieremo lavoro; e magari, dopo un po’, torneremo al punto di partenza.
Aspetti come le sessioni eroiche, le scadenze, le pressioni che riceviamo per rispettarle, i conflitti gestiti male, le aspettative esagerate o la prospettiva del licenziamento sono problematici, ma anche facili da riconoscere.
È più complicato fare il passo in più, chiedersi perché facciamo quel lavoro, e proprio quello: portare il discorso sul significato.
L’idea che il lavoro sia soltanto lavoro, e che la felicità debba dipendere unicamente dal tempo libero, si scontra con un dato: il lavoro occupa circa un terzo della nostra vita. Se è privo di senso e non fa altro che rubarci energie, è molto difficile controbilanciarlo, proprio perché occupa una porzione così grande.
Dovremmo cercare di esprimere i nostri valori anche nel lavoro, e di viverlo secondo uno scopo. Questo ci consentirebbe di entrare davvero in contatto con il qui e ora, e di trarne un significato, piuttosto che timbrare il cartellino e sperare che il tempo voli.
La lingua giapponese ha una parola per esprimere questo concetto.
ikigai (生き甲斐?)
Il termine ikigai significa sostanzialmente “ragione di vita”. In Giappone, l’ikigai è quella cosa per la quale alzarci ogni mattina: si ottiene rispondendo a quattro domande.
start2impact University ti propone un esercizio: prova a rispondere alle quattro domande e a capire se le risposte sono coerenti con il lavoro che hai oggi. Può essere una bussola per valutare le prossime opportunità lavorative.
Prima che ci lavorassimo, questa puntata non esisteva
Abbiamo impiegato del tempo per costruirla, poi del tempo per perfezionarla, cercando di farla venire bene. Crediamo che ci abbia dato più di quello che ci ha tolto.
Ci ha insegnato che il lavoro non va sopravvalutato, ma nemmeno sottovalutato; che non può essere tutto, ma neanche essere niente; che deve restituirci uno stipendio (la famosa “sopravvivenza”) ma anche altre cose (la famosa “vita”).
Questa è la situazione perfetta – facile da descrivere, difficile da realizzare. Nel mondo reale le cose sono più storte, disfunzionali, difettose. Ma non è detto che debbano esserlo per sempre, o per sempre nello stesso modo: basta riconoscere i margini di miglioramento. E poi lavorarci su.
Il filo continua 🧵
Per approfondire, dai un'occhiata a questi contenuti che non abbiamo fatto noi.
start2impact University
È la prima realtà che supporta le persone a trovare il proprio ikigai, grazie a Master che uniscono competenze digitali e impatto positivo sulla vita delle persone: hanno un tasso di placement superiore al 95%. Con il codice SERENIS avrai uno sconto di 100 € su tutti i Master (fino al 7 ottobre 2023)
La chiave a stella
È il romanzo con cui Primo Levi vinse il Premio Strega: parla di un operaio specializzato che monta tralicci in giro per il mondo. Ma è soprattutto un libro che descrive il lavoro come una forza positiva: in certe condizioni, «la migliore approssimazione concreta alla felicità».
Qual è la competenza più richiesta del prossimo futuro?
Ce lo spiega Gherardo Liguori, Co-Fondatore e CEO di start2impact, in questo intervento tratto dal ciclo di incontri TEDx. La risposta è meno laterale di quello che si potrebbe pensare, perché – secondo Liguori – «oggi il mondo ha soprattutto bisogno di grandi esseri umani». Su YouTube.
Ma chi ce lo fa fare?
È una domanda, ma anche il titolo di uno dei saggi di Maura Gancitano, che l’ha scritto con Andrea Colamedici. Parla delle trappole del lavoro di oggi, del modo in cui possiamo evitarle e dei legami insospettabili con la religione e la moralità, per resistere e per esistere.
5 podcast sul lavoro
Li ha raccolti NeN, azienda che vende luce e gas, invitando ad ascoltarli quando non si lavora. C’è anche un suggerimento bonus, che non è un podcast, ma che ti consigliamo di considerare lo stesso.
Dietro Filo ci siamo noi: ci piacerebbe se ci fossi anche tu. Facci sapere cosa funziona e quello che dovremmo migliorare.